"Voci dallo Stretto di Messina": antropologie, poteri, società, comunicazione.

Dipartimento COSPECS Aula Magna ore 09,00
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I Saraceni, si sa, erano di facili costumi e forse per questo hanno a lungo goduto di cattiva fama, anche nella più attenta storiografia nazionale. Del resto, solo qualche anno fa, Silvio Berlusconi, allora primo Ministro della Repubblica italiana, assicurò che la cultura occidentale è evidentemente superiore a quella araba. Nei dintorni di Catania, però, locande e spazi pubblici erano chiusi a Greci e Spagnoli e – si racconta - che anche Francesi, Inglesi, Lombardi e Piemontesi, qualche tempo dopo, non fossero benvisti.

Di quale fama godiamo, invece, noi antropologhe e antropologi nelle contemporanee locande mediatiche? Che tipo di antropologia ci viene richiesta, per allettare avventori sempre più distratti, e che tipo di sapere riusciamo a comunicare ? Quale sapere antropologico, quale visone del mondo sociale ci piacerebbe poter “disseminare”? Ancor prima, esiste veramente, in questi spazi di prevedibili movimenti di truppe mediatiche impegnate in finte battaglie ideologiche, una domanda di antropologia? E che corrispondenze o quali  idiosincrasie vi sono tra una simile ipotetica domanda e una eventuale offerta di antropologia (e scienza sociale) ?

Conta evidentemente il medium (la carta stampata, la radio, la tv e sempre di più i social), ma cosa ne è del messaggio? Ad esempio, è la stessa cosa disseminare o semplicemente riuscire a far emergere nello spazio pubblico (mediatico e politico) nazionale un testo che ricostruisce, con sapienza antropologica aggiornata e sedimentata competenza etnografica, la genealogia politico-intellettuale delle nuove destre europee, sul finire dagli anni ’80 del secolo scorso, acquisendo un carattere profetico rispetto alle attuali vicende politiche europee (Douglas Holmes, Integral Europe, 2000, trad. italiana 2020); o discutere, ad esempio, in un evento pubblico o nelle pagine di cultura di quotidiani nazionali dei cinque principi guida del diffusionismo (Vinigi Grottanelli, L’Etnologia e le leggi della condotta umana, 1964) o del cibo, come meccanismo simbolico di produzione di plasmazione identitaria? Detto altrimenti, se il mercato mediatico – sulla base di immaginari che dovremmo essere ben in grado di indagare - ci chiede di essere esperti di ceppi di natale, nostalgie paesane, esotismi da titillare attraverso una nouvelle vague ontologico-ambientalista o grazie al sempre vendibile libro di viaggio, dobbiamo rassegnarci a seguire questa domanda di questa antropologia? E, se così, a quanta e quale parte del nostro corrente sapere (antropologico, sociale, politico) siamo disposti a rinunciare? O, più radicalmente, non sarebbe più facile e in fondo più utile, adeguarci preventivamente agli immaginari sociali, economici, culturali e politici che soggiacciono a talune visioni correnti del sapere sociale? Immersi in quel bagno di amuchina intellettuale nel quale, da qualche tempo, alcuni ci invitano a nuotare, saremmo così sufficientemente purificati da poter aspirare, anche noi, qualora fossimo dotati delle corrette credenziali e dei necessari capitali sociali, a far sentire le nostre voci.